L’importanza assunta dal genitore omologo (dello stesso sesso) nel processo di socializzazione dei figli
Oggi più che mai il ruolo del genitore è sottoposto a tutta una serie di pressioni, provenienti non solo dal lavoro, dalla famiglia di origine, dal contesto sociale di riferimento, ma anche dai media, film, telefilm soap opere, che danno indicazioni su come muoversi nel mondo della genitorialità.

Cosa significa diventare genitori!

La genitorialità non scatta automaticamente con la nascita di un figlio, come per magia. Tutt’altro! La nascita di un figlio porta a rivedere sè stessi in qualità di figli, soprattutto sé il bambino è dello stesso sesso del padre o della madre. Con il divenire genitori e con il crescere dei figli scattano vecchie paure, rancori, conflitti, timori accantonati per tanto tempo. Non solo, nel loro riemergere questi vissuti si manifestano con un intensità emotiva amplificata da anni di rimozione e/o negazione.

Chi ha sperimentato il rapporto con il proprio genitore omologo, beneficiando del suo amore ma anche scontrandosi con il suo carattere e le sue idee, è avvantaggiato, perché ha potuto sperimentare, libero da ogni interferenza, il rapporto con il medesimo. Al contrario, chi non ha potuto o voluto confrontarsi con il genitore omologo si potrà sentire incompleto, rifugiando in contesti o ricercando persone che possono compensare al meglio questa sensazione di “vuoto”.

Perché è importante il rapporto con il genitore omologo (dello stesso sesso)?
Il rapporto con il genitore omologo mette il bambino nelle condizioni di sperimentare sé stesso attraverso il suo riferimento affettivo omologo: il padre per il figlio maschio e la madre per la figlia femmina.

Il rapporto con il genitore omologo inoltre fornisce al bambino tutta una serie di conferme che lo aiutano nel lungo e complesso processo di socializzazione. Infatti a differenza di quanto comunemente si crede, nel processo di socializzazione non riveste un ruolo di fondamentale importanza il precoce rapporto con i coetanei. Affinché il bambino possa sviluppare serenamente il naturale processo di separazione dalla famiglia e di avvicinamento con i coetanei, deve aver prima acquisito la sicurezza di base e la tranquillità emotiva che solo il rapporto con il genitore, ancor più se omologo, gli può dare. Una volta acquisito tutto ciò (la sicurezza e la fiducia di base) sarà pronto per gestire le relazioni e il confronto con gli altri.

Il processo di socializzazione si configura dunque, come un momento educativo che si realizza prima di tutto all’interno della famiglia. Giocare, interagire, ridere ma anche arrabbiarsi e dibattersi con il genitore nella prima infanzia è importante per il bambino, perché comunque vada il genitore lo confermerà sempre con il suo amore. E’ pertanto illusorio pensare che il solo fatto di stare insieme a tanti bambini, per di più all’interno di una situazione scolastica, che è per sua indole giudicante, possa aiutarlo a socializzare e a superare le difficoltà.

Molte esigenze e necessità educative ce le siamo create noi con il benessere (asilo nido e scuola materna), occorre però ricordare che il bambino è in via di sviluppo, che la sua identità è in via di formazione, che il senso del giudizio è agli albori, che lo sviluppo sessuale in senso psichico sarà decisivo nel periodo della preadolescenza, lo stesso vale per lo sviluppo emozionale.

Con questo voglio dire che ci sono dei periodi nella vita della persona che vanno rispettati, a maggior ragione per un bambino e non accelerati e forzati. Le tappe evolutive di ognuno sono soggettive: ci sono bambini che anticipano dei processi (cognitivi o motori) a scapito di altri e viceversa. Questo vale anche nella capacità e voglia di stare con i coetanei: ci sono bambini che lo desiderano perché incuriositi mentre altri manifestano un certo disinteresse. Forzarli a interagire è un errore. Il genitore che lo fa dovrebbe domandarsi se è un suo bisogno, una sua necessità. Se così fosse si dovrebbe assecondare cercando delle occasioni per “socializzare”.

Ricordo il caso di una bambina, che chiamerò Giulia, di tre anni che con la mamma stava facendo l’inserimento alla scuola materna.

La bambina per i suoi tre anni sembrava molto più grande, era infatti più alta dei suoi coetanei, gracile e per questo molto pallida. In gruppo non sorrideva mai. Quando la mamma la accompagnava, stava un po’ con lei e poi la lasciava con gli altri bambini ma Giulia si metteva subito a piangere, non voleva sentire ragioni all’idea di staccarsi da sua mamma. Questa per un po’ rimaneva ma poi doveva andare. Nel resto della giornata la bambina non giocava con nessuno, non partecipava a nessuna attività educativa, stava da sola ad aspettare che sua mamma la venisse a prendere. Al momento del pasto poi non mangiava, e se forzata andava in bagno a vomitare, a volte anche solo acido gastrico.

Il tutto viene fatto presente alla madre la quale dice che anche a casa mangia poco ma ritiene giusto mandare sua figlia a scuola, anche se lei è a casa dal lavoro. La bambina sta sviluppando un principio di anoressia, e rifiutando il cibo vive il conflitto con la madre.

La madre aveva deciso di mandare la figlia a scuola perché erano scattati i tre anni. Età in cui si accede alla scuola materna.

In realtà questa bambina non era pronta emotivamente a stabilire delle relazioni con altri bambini perché non aveva ancora acquisito una sua serenità emotiva. A differenza degli altri bambini aveva bisogno di più tempo, soprattutto di tempo da trascorrere con la madre.

Come spesso accade questa mamma voleva aderire all’uso di portare la figlia alla scuola materna giunti i tre anni, senza valutare se la figlia era pronta per una esperienza così nuova e intensa.

Per concludere vorrei sottolineare due aspetti; innanzitutto che nel contesto sociale attuale, dove imperano le interferenze di ogni tipo; economiche, sociali e culturali, la famiglia può facilmente trovarsi spaesata e non sapere come orientarsi, di fronte a tanti messaggi. Il vissuto comune è di sentirsi diversi, se non si aderisce ai modelli sociali oltre che ai canoni estetici proposti e imposti dalla nostra società.

Ecco che per formarsi e per crescere la famiglia necessita del nutrimento e del contributo di tutti i suoi componenti, altrimenti la legge dell’economico, quindi il dare per avere, cancella non solo ogni possibilità di esprimere l’amore, ma anche di comunicare.

Consiglio sempre di dare ampio spazio all’interno della famiglia ai rapporti simbiotici, cioè di seguire la naturale spinta all’amore, che è nell’indole di un genitore, quindi abbracciarsi, scambiarsi dei massaggi, raccontarsi storie, esprimere le emozioni verbalizzando, ad esempio, cosa si prova nelle varie esperienze quotidiane: gioia per essere insieme alla mamme al papà, tristezza perché non vede il nonno, paura perché ha visto un cane abbaiare all’improvviso, rabbia perché ha litigato con l’amico…., questo al fine di condividere le gioie e i dolori.

Prestare ascolto al mondo emotivo del proprio figlio, ma anche al proprio, ci permette di crescere insieme a lui. Noi abbiamo molto da dire e da raccontare, ma anche nostro figlio ha molto da insegnarci in termini di umiltà, capacità di ascolto, determinazione, entusiasmo, gusto per la scoperta, il piacere della novità e del dolce far niente.

A tal proposito una madre di tre figli maschi tempo fa mi disse, che a loro aveva dato tanto, “amore, coccole, momenti di tenerezza. Aveva condiviso le crisi evolutive, i pianti, le richieste ossessive, ma proprio per questo da loro aveva imparato molte cose. Aveva tratto insegnamento e voglia di fare dall’inesauribile energia che questi figli sprigionavano in ogni cosa che facevano e che a lei, per tanti motivi, era sempre mancato”.


3 gennaio 2007

Barbara CAMILLI  

 

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